In un contesto crudele come i campi di concentramento, dove i gesti di solidarietà erano visti con disprezzo e i legami affettivi soppressi violentemente, impressiona la storia di padre Massimiliano Kolbe.
Internato nel campo di concentramento di Auschwitz a maggio 1941, venne subito impiegato al lavoro e, a causa del suo temperamento mite e disponibile verso gli altri prigionieri, bastonato più volte. Nonostante i divieti, riuscì persino a celebrare un paio di messe prima della fine di luglio dello stesso anno.
In quel mese infatti, la fuga di uno dei prigionieri causò una rappresaglia delle guardie del campo, che selezionarono dieci innocenti dalla baracca del fuggiasco, per farli morire nel bunker della fame.
Quando uno di loro scoppiò in lacrime dicendo di avere una famiglia a casa che lo aspettava, a sorpresa, padre Kolbe uscì dai ranghi e si offrì volontario al suo posto. Le guardie, inaspettatamente, accettarono questo gesto di misericordia e portarono Kolbe nel bunker con gli altri prigionieri.
Dopo due settimane infernali senza cibo e acqua, la maggior parte delle vittime era già morta, ma Kolbe e altri quattro uomini resistevano, pregando e cantando.
Per liberare il bunker per altri prigionieri, le SS dovettero infine uccidere questi ultimi sopravvissuti con un’iniezione di acido fenico.
Un testimone riportò le ultime parole di padre Kolbe al suo boia: “..l’odio non serve a niente.. Solo l’amore crea!”.
Il prigioniero per cui si era immolato padre Kolbe, riuscì a tornare vivo da sua moglie, ma non dai suoi due figli, vittime di un bombardamento russo.