Immaginatevi giovani e innamorati, desiderosi di trovare con il vostro partner un po’ di quella intimità che non avreste a casa, e per tanto decidete di allontanarvi con la macchina, magari in campagna. Ma è proprio in questo luogo isolato che qualcuno vi aggredisce, puntandovi prima una torcia negli occhi e poi sparando all’impazzata contro il finestrino.
Quella che pare la trama di un film horror, è in realtà lo schema d’azione del più famoso e misterioso serial killer italiano: il mostro di Firenze.
Tutto ha inizio la notte del 21 agosto 1968. Antonio Lo Bianco e Barbara Locci sono amanti e si sono appartati in una strada sterrata, lontani da occhi indiscreti, fin quando qualcuno si avvicina alla loro auto e spara otto colpi a distanza ravvicinata, con una calibro 22, uccidendoli.
Dopo le indagini, è il marito di Barbara, Stefano Mele, ad essere accusato dell’omicidio e la storia pare concludersi con un delitto di gelosia e un uomo in carcere.
Passano sei anni e Pasquale Gentilcore si apparta in campagna con la fidanzata Stefania Pettini. Nessuno dei due ripensa nemmeno vagamente al delitto dell’estate del ’68 e si godono tranquillamente la loro intimità, offerta dal vigneto che hanno scelto per celare il loro amore.
Di nuovo, un uomo esce dall’ombra e inizia a sparare con una calibro 22, colpendo cinque volte il ragazzo e tre volte la ragazza.
Stefania è ancora viva quando viene estratta dal veicolo dal suo assalitore, che la finisce con tre coltellate e poi infierisce sul cadavere colpendolo altre 96 volte. I colpi sono violentissimi e, come sfregio finale, l’assassino penetra il sesso della ragazza con un tralcio di vite.
Passano altri sette anni e il mostro torna a colpire.
Le vittime sono Carmela De Nuccio e Giovanni Foggi. Anche in questa occasione, dopo la sparatoria viene estratto il corpo della ragazza dall’auto e successivamente martoriato con l’asportazione del pube.
Il 22 ottobre 1981, dopo soli 4 mesi dall’ultimo delitto, la stessa pistola colpisce e uccide nella loro auto Stefano Baldi e Susanna Cambi, anche lei rimossa dall’auto e poi mutilata.
Il 19 giugno 1982 il mostro uccide Antonella Migliorini e Paolo Mainardi. E’ proprio in seguito a questo nuovo delitto che si pensa a confrontare i bossoli trovati sulle scene del crimine con quelli dell’omicidio del 1968 scoprendo un’arma comune, scagionando Stefano Mele e riaprendo il caso. Gli investigatori si sono infatti accorti che i bossoli caratterizzati da una H punzonata sul fondello, appartengono tutti alla stessa Beretta calibro 22, la pistola più ricercata d’Italia. Nonostante questa svolta, le indagini però non riescono a procedere in alcuna direzione.
Il mostro continua quindi a colpire indisturbato, uccidendo nuovamente il 9 settembre 1983 e il 29 luglio 1984. Durante il delitto di luglio, il killer inserisce un nuovo elemento nella sua routine asportando oltre al pube, anche il seno sinistro della donna.
L’8 settembre 1985 infine, si svolge l’ultimo omicidio.
La coppia questa volta è composta da due turisti francesi che campeggiano nelle campagne toscane. Il mostro ha ucciso prima Jean Michel Kraveichvili con quattro colpi di pistola per poi nasconderne il cadavere tra i cespugli, e in seguito Nadine Mauriot alla quale esporta ancora una volta pube e seno sinistro per poi riportarla nella sua tenda in un goffo tentativo di nascondere il corpo.
È la prima volta che il Mostro occulta i cadaveri. Vuole ritardare l’allarme, evidentemente ha già in mente la sfida agli inquirenti. Quella stessa notte mette infatti in una busta un frammento del seno di Nadine indirizzato alla Procura della Repubblica di Firenze, con l’indirizzo scritto con lettere di giornale ritagliate. Forse vuole essere lui ad annunciare l’ultima feroce «impresa».
L’ultimo indizio è una lettera anonima recapitata dieci giorni dopo l’omicidio della coppia francese, dove si consiglia di indagare su un abitante di Mercatale che diventerà il protagonista principale dell’inchiesta, ma che non viene inizialmente presa in considerazione.
Dopo il 1985, il nulla.
La catena s’interrompe dopo 17 anni di sangue e sedici morti.
Solo nel 1991 si decide di concentrare le indagini su quel contadino segnalato anni prima nella lettera anonima: Pietro Pacciani, già in carcere con l’accusa di violenza sessuale sulle sue due figlie, diventa quindi il principale indiziato.
Pacciani, descrive se stesso come “un povero agnelluccio innocente”, ma è in realtà un uomo violento e perverso, che si è già macchiato di omicidio e ha più volte molestato moglie e figlie. Tra i vari indizi più o meno forzati, quelli su cui l’accusa preme di più sono l’omicidio compiuto in gioventù ai danni di un uomo che aveva palpeggiato il seno sinistro della sua fidanzata dell’epoca e i bossoli della celebre Beretta ritrovati nel suo orto di casa.
Dopo vari processi che lo vedono prima colpevole e poi assolto, Pacciani viene ritrovato morto nel 1998, con i pantaloni abbassati, il maglione tirato in alto fino al collo e con tracce nel sangue di un farmaco antiasmatico fortemente controindicato per lui (che non soffriva di asma ed era invece affetto da una malattia cardiaca).
Certamente parliamo di una persona spregevole dal punto di vista morale ed etico, ma per quanto riguarda i delitti che dal 1968 al 1985 sconvolsero le campagne fiorentine, possiamo ritenerlo colpevole? Oppure l’intera vicenda necessita di una chiave di lettura diversa?
L’unica cosa certa è che Pacciani muore da innocente, in attesa di un nuovo processo, mentre i suoi “compagni di merenda”, gli amici con cui era solito accompagnarsi, entrano in scena e sono condannati in via definitiva.
La storia più tormentata della giustizia italiana, continua a restare insoluta.